[Estratto dalla newsletter di marzo 2019] Quando ero molto piccola non sapevo pronunciare il mio nome e cognome, dicevo di chiamarmi “Oia Ippo” e quello è diventato il mio soprannome in famiglia. Avevo sviluppato un vero e proprio buffo linguaggio da me coniato, che solo i miei sapevano tradurre. La prima volta che qualcuno usò la parola “stress” per descrivere un mio sintomo avevo 3 anni, andavo l’asilo e le attenzioni e aspettative esasperate di una bambina che mi voleva tutta per sé, mi avevano causato un disagio che si manifestava a partire dai miei capelli, che per un anno ho portato con un’acconciatura che era un incrocio fra quelle di Mafalda e Fantaghirò.
Non sono mai stata una bambina timida, ero espansiva e socievole, ma mi vergognavo a chiedere informazioni o un bicchiere d’acqua al bar. Da adolescente nonostante il mio carattere aperto e delle esperienze di studio all’estero che mi hanno fatto superare alcuni limiti, mi è successo di non sperimentare o di abbandonare alcune novità che mi incuriosivano ( corso di teatro, di spagnolo) perché mi imbarazzava l’idea di non essere “già brava”, di fare brutta figura.
Oggi faccio un lavoro che mi porta ad interagire con persone di tutto il mondo, tengo speech ad eventi di fronte a centinaia di persone, insegno a classi di giovani ragazze come utilizzare i canali e gli strumenti alla base del mio lavoro e come raggiungere degli i loro obiettivi; provo con piacere sport e attività nuove, vivo in un paese straniero lontana parecchi km da casa e ordino da bere senza più dover trovare il coraggio. Continuo a fare tuffi da altezze sempre più alte, perché una volta superato un limite ne individuo subito un altro su cui lavorare.
Perché ti dico questo? Perché tutti abbiamo fatto dei miglioramenti, superato degli ostacoli nella nostra vita, affrontato situazioni difficili e ne siamo usciti senza rendercene conto. Ogni tanto dovremmo fermarci a pensare a come eravamo e a come siamo ed essere noi le nostre muse, ispirare noi stesse con i nostri successi prima di cercare negli altri l’ispirazione.
La frase che ho scritto all’inizio di questa newsletter si collega anche a questo: ognuno di noi sceglie un percorso, cammina con dei tempi, qulacuno accanto a noi corre più in fretta, salta ostacoli , raggiunge i suoi obiettivi, ma cosa succede se intanto tu cammini senza guardare avanti ma focalizzandoti sugli altri? Inciampi, sbagli strada, ti distrai e qualche volta ti fai male, magari non arrivi da nessuna parte e qualche volta dai la colpa agli altri perché con il loro cammino ti hanno intralciata. Ecco, guarda avanti, testa alta, cammina, corri, inciampa, sbucciati le ginocchia, fermati a guardare il paesaggio, se vuoi, e poi torna a camminare, è la tua strada, il tuo cammino, solo tu puoi permettere agli altri di non farti arrivare alla meta. Qualunque questa sia.
Le mie non sono parole retoriche, frasi da post motivazionali trovate su Pinterest, sono esperienze, vita e cambiamenti che mi riguardano. Che riguardano tante donne lì fuori (anche uomini, ne sono certa) e magari una di queste sei proprio tu.
Perché i lacci delle scarpe si slacciano mentre camminiamo?
Lo ha scoperto un gruppo di ingegneri meccanici dell’Università di Berkeley e lo ha pubblicato sulla rivista Proceedings of the Royal Society, dove si legge che il “cedimento catastrofico del nodo” avviene per via di due fattori collegati tra di loro: l’impatto del piede sul suolo e la torsione della caviglia, che hanno l’effetto di liquefare le forze d’attrito che tengono in posizione un nodo.
Alcune cose sei certo che “succedono e basta”, molto spesso sei tu che fai in modo che accadano. Alla fine il risultato è solo uno: allacciati le scarpe e cammina.
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